Leggere Bolaño è un’esperienza intensa e non facilissima. Il lettore viene totalmente assorbito da una scrittura densa e quasi in apnea per la mancanza di pause. Un flusso continuo di pensieri che dal vissuto personale del protagonista ci porta al vissuto personale dell’autore, nella sua terra, il Cile, ricca di contrasti, di asperità e di dolcezza, di arte e letteratura e di violenti eventi storici che hanno lasciato profonde e dolorose cicatrici. Nelle poche pagine di Notturno cileno (Adelphi, pp. 123) l’autore, attraverso la voce e i ricordi di un ormai anziano prete ripercorre “pregi” e “difetti” della sua terra natia. Dalla bellissima descrizione dell’incontro con Neruda, i poeti, i letterati e i critici letterari delle prime pagine fino al golpe di Pinochet, al marxismo e alla Seconda guerra mondiale nelle ultime febbrili pagine. E di come, anche in questi terribili frangenti, la letteratura, la scrittura e l’arte siano sempre riuscite a trovare il loro spazio, a esprimersi anche attraverso quegli individui che, in quel momento, non erano esattamente dalla parte “giusta” della storia, se davvero esiste una parte giusta. Questo libro è, in alcune pagine in maniera più palese, in altre in modo più sottile un inno alla letteratura, classica e moderna, e a coloro che l’anno resa grande e immortale; è una dedica, tra le righe, al Cile, alle vicende che nel bene e nel male hanno caratterizzato questa terra. La prosa che l’autore usa è coinvolgente ma non semplice, le frasi sono molto lunghe, le pause poche, è un testo in cui non vi è alcuna suddivisione, né in capitoli né in paragrafi, è come se il lettore fosse invitato a bere le sue parole tutte d’un fiato, come si fa con alcuni superalcolici. E come accade con alcuni superalcolici, ci sono brani, spezzoni che affascinano, scivolano velocemente e bruciano appena vengono letti e infine scaldano e inebriano se gustati fino in fondo.