Recensione
E’ un romanzo sentito e doloroso. Per l’autrice, per i personaggi e per il lettore. Intenso, denso e rabbioso. E’ la prima volta, fra tutti i libri della Nemirovsky che ho letto finora, che un suo scritto mi trasmette così tanta sofferenza, frustrazione e rabbia. Forse solo Il ballo lo aveva fatto, ma in percentuale molto, molto ridotta. Helène è una ragazzina sola, lasciata a se stessa da genitori egoisti ed egocentrici, che non sanno guardare al di là dei propri personali e superficiali interessi, vizi, e che percepiscono la figlia come un peso, un qualcosa in più di cui poter tranquillamente fare a meno. Terribili sono le parole e i gesti che la madre le rivolge: ricatti emotivi, umiliazioni, parole atte solo a ferire e denigrare. Questo è il libro più autobiografico scritto dall’autrice di origini russe, e che infatti aveva un pessimo rapporto con la madre, traumi infantili e giovanili che si è trascinata nell’età adulta e che ha riversato sulle figlie a sua volta, con le quali, come in una sorta di circolo vizioso, non è mai riuscita a instaurare un solido legame. Certe ferite sono difficili da rimarginare e certe cicatrici troppo spesse per essere nascoste o accettate. Helène cresce troppo in fretta, in lotta perenne con le ossessioni di una madre adultera che ha paura di invecchiare e un padre la cui unica passione è il gioco d’azzardo; e la guerra, la rivoluzione russa che si avvicina sempre di più costringendola alla fuga e a dire addio all’unica persona che l’ha veramente amata. Helène desidera amore, considerazione, attenzione e rispetto, cose all’apparenza facili da ottenere in famiglia e che non riceve mai, per questo paragona sempre la sua, di famiglia, con quella degli altri e ogni volta è una stilettata al cuore. Parole e pagine a volte dure. Una penna tagliente come poche, sentimenti pesanti come macigni e una ragazzina che non si vorrebbe far altro che abbracciare. Bellissimo, struggente romanzo.
Trama
Il vino della solitudine è il più autobiografico e il più personale dei grandi romanzi di Irène Némirovsky: la quale, pochi giorni prima di essere arrestata, stilando l’elenco delle sue opere sul retro del quaderno di Suite francese, accanto a questo titolo scriveva: «Di Irène Némirovsky per Irène Némirovsky». Non sarà difficile, in effetti, riconoscere nella piccola Hélène, che siede a tavola dritta e composta per evitare gli aspri rimproveri della madre, la stessa Irène; e nella bella donna che a cena sfoglia le riviste di moda appena arrivate da Parigi in quella noiosa cittadina dell’impero russo – e trascura una figlia poco amata per il giovane cugino, oggetto invece di una furente passione – quella Fanny Némirovsky che ha fatto dell’infanzia di Irène un deserto senza amore. Hélène detesta la madre con tutte le sue forze (e si sente morire all’idea di dover posare la bocca su quella guancia che vorrebbe «lacerare con le unghie»), al punto da sostituirne il nome, nelle preghiere serali, con quello dell’amata istitutrice, «con una vaga speranza omicida». Verrà un giorno, però, in cui la madre comincerà a invecchiare, e Hélène avrà diciott’anni: accadrà a Parigi, dove la famiglia si è stabilita dopo la guerra e la rivoluzione di ottobre e la fuga attraverso le vaste pianure gelate della Russia e della Finlandia, durante la quale l’adolescente ha avuto per la prima volta «la consapevolezza del suo potere di donna». Allora sembrerà giunto alfine per lei il momento della vendetta: «Ti farò piangere come tu hai fatto piangere me!». Ma Hélène non è sua madre – e forse sceglierà una strada diversa: quella di una solitudine «aspra e inebriante». Da un’infanzia infelice, diceva Irène Némirovsky, non si guarisce mai: pochi hanno saputo raccontare quell’infelicità come ha fatto lei.