Recensione
Rivalutato negli ultimi anni, la scrittura dal premio Nobel 1920 è asciutta, decisa e lineare. Hamsun racconta di come la fame non sia una condizione solo fisica, ma anche morale e artistica. La fame di chi vorrebbe guadagnarsi da vivere con ciò che gli riesce meglio fare, la scrittura in questo caso, e che, forse stupidamente o forse caparbiamente, non si accontenta di altre attività, altri lavori a costo, appunto, di soffrire la fame, contrarre debiti e chiedere praticamente l’elemosina. Alcuni critici hanno definito il protagonista del romanzo uno sfaticato, un pigro sognatore, ma io non sono d’accordo, c’è molto di più in lui. C’è il perseguimento ostinato di un obiettivo, e credo anche che questo giudizio così duro in realtà derivi soltanto dal fatto che in età avanzata l’autore sia stato vicino al nazismo. Certo, questa sua vicinanza è passibile di sdegno ma comunque, a mio avviso, è sbagliato e ingiusto comprendere nel giudizio alla persona anche le sue opere precedenti all’arrivo di quel periodo storico (Fame, infatti, è del 1919). A me è piaciuto, ostico e lento in alcuni punti, ma vale la pena recuperarlo, se non altro per lo spaccato sulla condizione di vita e sociale della Danimarca di inizio ‘900 che offre.
Trama
I solitari deliri e le tortuose riflessioni di un giovane scrittore errante nella vita urbana, accompagnato dalla sua inesorabile antagonista, la fame. Un romanzo che sta sulla soglia della grande letteratura del Novecento.