Il primo punto a favore per questo thriller è sicuramente il tema. La sindrome dissociativa della personalità, o disturbo dissociativo dell’identità, è sempre stato un argomento che mi intriga, mi incuriosisce pur non essendo io una psicologa, e non è facile ritrovarlo in letteratura. Il primo titolo che mi viene in mente, anche se mascherato e giustificato nel libro come conseguenza a degli esperimenti scientifici, sicuramente per via dell’epoca in cui è stato scritto, è Lo strano caso del dottor Jekill e del signor Hyde di R. L. Stevenson, più recentemente, invece, mi vengono alla mente i romanzi psicologici di Daniel Keyes. Ritrovarlo ora nel romanzo di Gianni Mazza, La bestia di Brixton (Operaincerta editore, pp.318), è stata un’enorme sorpresa. Inizialmente non capivo molto della storia, dove volessero andare a parare questi due personaggi, Mark e Karl, capivo solo che erano due personalità agli antipodi, che apparentemente non avevano nulla a che fare l’uno con l’altro e che il secondo, Karl, avesse evidenti problemi psichici visto che parlava con un fratello immaginario, Damien (che spinge Karl a camminare sul sottile confine tra bene e male nei confronti di una donna e per nome e ruolo, sotto un certo punto di vista, mi ha ricordato il romanzo Demian di Herman Hesse), e iniziavo a storcere il naso. Ancora di più ho iniziato a storcere il naso quando mi resi conto del tema su cui l’autore aveva deciso di incentrare il romanzo. Non è, infatti, un argomento facile da gestire il disturbo dissociativo, neppure in un libro, e un errore di valutazione, anche se piccolo, una stupidaggine, una distrazione, può essere sufficiente per mandare a monte l’intero romanzo e costringere il lettore ad abbandonarlo oppure a leggerlo senza troppa convinzione o, peggio, ad intenderlo non più come un thriller ma come un’opera di altro genere. Gianni Mazza, al contrario, mi ha stupita. Il plot risulta ben architettato, convincente, assolutamente credibile e senza sbavature, solo il finale, per quanto ben riportato e costruito, è risultato abbastanza prevedibile. Unico mio dubbio per quanto riguarda la trama, ma ripeto, non sono un’esperta, è la possibilità o meno che una delle personalità, diversa dall’originale ovviamente, possa sopprimerne un’altra.Convincente è anche la scrittura dell’autore. Corretta, fluida, ogni frase è ben calibrata e mai banale o senza una precisa motivazione, forse il testo è un po’ troppo riflessivo e prolisso in alcune parti, soprattutto quelle riguardanti Mark, ma tutto sommato è una scelta che potrebbe anche essere voluta per adeguarsi alla personalità della personaggio stesso. Unico neo, se proprio vogliamo, riguarda il personaggio della detective. In questo romanzo, infatti, le classiche indagini poliziesche vengono praticamente escluse e ci si concentra interamente sul punto di vista delle due personalità dominanti, Mark e Karl, ed è proprio quest’ultima a rivolgersi alla detective, anche se in maniera mai diretta, come se avesse ingaggiato con lei una sfida, un conto in sospeso da saldare. È un aspetto questo che non viene mai né approfondito né concluso, rimane in sospeso, senza una motivazione precisa e senza uno sviluppo adeguato. Sinceramente l’ho trovato un po’ discordante, stridente e incompleto. Scettica all’inizio e sempre più piacevolmente coinvolta man mano che procedevo nella lettura, questo romanzo mi è comunque piaciuto, originale, ben curato nei minimi dettagli e con ottimi spunti di riflessione sulla complessità dell’animo e del cervello umano.