Recensione
Una piccola, grande chicca giornalistica di metà Ottocento che si legge in un paio d’ore. Sincero, conciso, preciso e fedele ai fatti, arricchito comunque da un pizzico di ironia nei commenti dell’autrice, la giornalista statunitense fondatrice del giornalismo d’inchiesta sotto copertura. Un testo breve, veloce ma agghiacciante nella sua realtà storica che racconta quello che spesso, in quegli anni, dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima del Novecento, purtroppo accadeva nelle strutture di igiene mentale. Le più colpite, spesso senza colpa e neppure senza una reale e accertata patologia mentale, erano le donne. Maltrattate, abusate e tenute in condizioni pietoso da infermiere crudeli e medici negligenti. Un reportage moderno e adattabilissimo ai giorni nostri, in fondo di casi di malasanità, strutture ospedaliere fatiscenti gestite da personale incompetente e medici superficiali ne sentiamo tutti i giorni.
Trama
Nel 1887, la reporter Nellie Bly, fingendosi una rifugiata afflitta da paranoia, si fece rinchiudere nel manicomio dell’isola Blackwell, allo scopo di scoprire le condizioni di vita delle donne ricoverate. “Battevo i denti e tremavo, il corpo livido per il freddo che attanagliava le mie membra. All’improvviso, tre secchi di acqua gelida mi furono versati sulla testa, tanto che ne ebbi gli occhi, la bocca e le narici invase. Quando, scossa da tremiti incontrollabili, pensavo che sarei affogata, mi trascinarono fuori dalla vasca. Fu in quel momento che mi sentii realmente prossima alla follia”. Nel suo reportage, Nellie Bly racconta i soprusi e le violenze che le pazienti subivano per opera di crudeli infermiere e medici poco capaci.