Recensione
Distopico vintage. Ecco, mettiamola così. Per l’epoca in cui è stato scritto, 1954, è stato sicuramente una piccola rivoluzione per il genere, violenza allo stato puro e regressione della civiltà in favore di puro istinto animalesco e selvaggio. Un’atmosfera, un elemento che trova la sua massima espressione in un gruppo di ragazzini dispersi su un’isola e senza la supervisione di un adulto. Ho trovato questo romanzo particolarmente simbolico, una lunga e complessa metafora di come, non importa a che età, gli istinti più biechi possano prendere il sopravvento sulla “civilizzazione”, sulle regole, di come quest’ultima, davanti all’istinto di sopravvivenza, all’istinto del leader, del sangue, della potenza sia destinata a soccombere. Certo, non morirebbe mai del tutto, le sue radici le ha ben piantate, ma sottile è il filo che separa buon senso e voglia di primeggiare; tra rimanere fedeli alla ragione e cedere alla natura predatoria tipica dell’uomo, sia in senso figurato ed emotivo che in senso fisico e concreto. Un romanzo non eccessivamente violento per i nostri giorni, ma che fa ben capire come sia oggi che allora l’uomo cambi e si trasformi sotto molti aspetti, pur rimanendo tale e quale quando si tratta di detenzione del potere e sopravvivenza: egoismo e manipolazione, paura della morte nonché cieca violenza sono i capisaldi di giovani menti in balia di loro stessi e dei loro istinti primordiali.
Trama
Un gruppo di ragazzi inglesi, sopravvissuti a un incidente aereo, resta abbandonato a se stesso su un’isola deserta e si trasforma in una terribile tribù di selvaggi sanguinari dai macabri riti. Golding nel 1983 ha ottenuto il Nobel per la letteratura.