Recensione
Attore, sceneggiatore, registra e scrittore, dopo il recente successo televisivo raggiunto con la serie tratta dai suoi gialli sulle vicende del questore Rocco Schiavone, Antonio Manzini si è volutamente cimentato nell’ultima produzione letteraria Orfani bianchi (Chiarelettere, pag.256) con un personaggio femminile. Traendo ispirazione dalla vita della badante della nonna, una donna dell’est Europa, ha elaborato la vicenda di Mirta Mitea, giovane moldava, in Italia per lavoro da cinque anni. In patria ha lasciato un’anziana madre, anche lei bisognosa di cure, a cui ha affidato il figlio dodicenne Ilie. Mirta è una persona concreta, che non si arrende, non ha paura della fatica, si adegua a tutto, anche a condividere il letto con una collega sudamericana poco propensa a lavarsi, pur di garantire a fine mese il pacco per la famiglia, con vestiti, soldi, medicinali, giochi elettronici. Purtroppo nei mesi più freddi non riesce a spedire il denaro necessario per la sostituzione della vecchia stufa e il malfunzionamento provoca un incendio, in seguito al quale la madre perde la vita. Oltre al dolore e al senso di colpa, Mirta si trova così col gravissimo problema della custodia del ragazzino, finché a malincuore si vede costretta a lasciarlo in un istituto, un “internat”: Ilie diventa in questo modo un orfano bianco. Col corpo a Roma e il cuore in Moldavia, dal figlio che le manca molto e spera di portare nell’Urbe entro pochi mesi, la protagonista racconta la quotidianità della propria vita, tutta concentrata sulla necessità di svolgere al meglio il lavoro di badante, senza pensare ai divertimenti, alla bellezza, all’amore. Mirta è un personaggio a tutto tondo, per il quale si parteggia subito. La sua vicenda è esaltata dallo stile asciutto, semplice, diretto dell’autore, che graffia all’inverosimile, soprattutto nel tremendo e inaspettato finale. Ho letto recensioni in cui questa parte del libro viene criticata giudicandola “buttata lì”, come se l’autore non avesse saputo terminare in modo più completo la vicenda. Per me, invece, la lunghezza del finale è adeguata: ogni altra parola sarebbe stata in più. Si lascia spazio così alle inevitabili riflessioni sul che cosa conti di più nella vita: la salute, i soldi, l’amore, la fortuna e, perché no? Il luogo in cui si nasce…
Lara Massignan
Trama
Mirta è una giovane donna moldava trapiantata a Roma in cerca di lavoro. Alle spalle si è lasciata un mondo di miseria e sofferenza, e soprattutto Ilie, il suo bambino, tutto quello che ha di bello e le dà sostegno in questa vita di nuovi sacrifici e umiliazioni. Per primo Nunzio poi la signora Mazzanti, “che si era spenta una notte di dicembre, sotto Natale, ma la famiglia non aveva rinunciato all’albero ai regali e al panettone”, poi Olivia e adesso Eleonora. Tutte persone vinte dall’esistenza e dagli anni, spesso abbandonate dai loro stessi familiari. Ad accudirle c’è lei, Mirta, che non le conosce ma le accompagna alla morte condividendo con loro un’intimità fatta di cure e piccole attenzioni quotidiane. Ecco quello che siamo, sembra dirci Manzini in questo romanzo sorprendente e rivelatore con al centro un personaggio femminile di grande forza e bellezza, in lotta contro un destino spietato: il suo, che non le dà tregua, e quello delle persone che deve accudire, sole e votate alla fine. “Nella disperazione siamo uguali” dice Eleonora, ricca e con alle spalle una vita di bellezza, a Mirta, protesa con tutte le energie di cui dispone a costruirsi un futuro di serenità per sé e per il figlio, nell’ultimo, intenso e contraddittorio rapporto fra due donne che, sole e in fondo al barile, finiscono per somigliarsi. Dagli occhi e dalle parole di Mirta il ritratto di una società che sembra non conoscere più la tenerezza.