Diventare cattivi per necessità. Passare al lato oscuro per poter sopravvivere in maniera dignitosa, o quasi. Ma benché si parli di sopravvivenza, di garantire la soddisfazione dei diritti e dei bisogni primari, cibo, cure mediche, istruzione, il prezzo da pagare è altissimo. Perché dove, purtroppo spesso, non arriva lo Stato arriva la criminalità organizzata, la mafia. Che paga, e anche bene i suoi “fedeli”, ma ci si deve sporcare le mani ed essere sempre pronti a perdere qualcuno o se stessi. E man mano che ci si addentra nella melma vischiosa, meno si riesce a districarsi, a porre dei paletti da non oltrepassare e, al contempo, si capisce sempre di più quanto il sottile confine che separa lo Stato dalla mafia, la legalità dall’illegalità, sia labile o di come molte volte sparisca del tutto. Si respira dolore, disperazione, rimpianto e senso di sconfitta fra le pagine di Le tre vite (Edizioni Quanta Radio, pp. 90) del padovano Carlo Cavallaro. E’ una storia intensa e drammatica che fa arrabbiare, ma anche riflettere su quanto la disperazione possa portare l’uomo a compiere scelte difficili e controverse e ad instaurare legami pericolosi. Sono scelte, dicevo, ma nella vita, per quanto dura e complicata, per quanto “affamata” possa essere ci sono sempre scelte alternative, certo meno immediate, ma per lo meno oneste. La decisione del protagonista di affiliarsi a gruppi mafiosi per garantire le spese mediche alla madre malata e il pane in tavola è una scelta di comodo. Rapida e veloce. Non giudico l’autore, né la storia, alquanto credibile e realistica, ma il personaggio. E’ stata una scusa, la sua, per discolparsi e pulirsi la coscienza. Vissuto nell’ipocrisia e distrutto nella falsità. Per ottenere cosa? Nulla. Esattamente ciò che aveva a sedici anni, quando ha dato inizio a questo suo stile di vita. Una storia, la sua, che inizia alla fine della prima decade degli anni 2000 e si conclude con un salto temporale in avanti fino al 2022, dando così ad intendere al lettore che, purtroppo, realtà come questa non cambieranno mai e che anzi, forse sarà anche peggio. Ciò che mi ha colpito è lo stile narrativo di Cavallaro che, pur essendo veneto lui e trentino il suo personaggio, riesce a conferirgli una caratteristica parlata meridionale e questo particolare mi ha lasciato da un lato stupita, dall’atro dubbiosa. Perché è vero che si può, trasferendosi da una parte all’altra della penisola italica, acquisire accenti e modi di dire tipici di quella determinata zona, ma è anche vero che il trentino è molto particolare, ha inflessioni tedesche e un accento molto “duro” che il personaggio non possiede, neppure all’inizio della storia, e proprio per questo mi è parso troppo drastico e troppo marcato questo passaggio dall’estremo nord all’estremo sud. Ritengo, e parlo per esperienza diretta, che non si perdono mai del tutto alcune inflessioni e alcuni accenti tipici della propria origine. Cinzia Ceriani