È impossibile negare che sia un libro doloroso, sia sul piano fisico che motivo, che rivela le debolezze e le fragilità dell’animo umano e di quanto sia facile cedere, cadere in situazioni autolesionistiche. Caratteristica che spesso tende ad accomunare artisti e scrittori. Dipendenza (Fazi, pp. 178) di Tove Ditlevsen, l’ultimo capitolo della trilogia di Copenaghen, si identifica come una sorta di linea curva a tratti ascendente e a tratti discendente, un’altalena di sensazioni ed emozioni che la grande capacità dell’autrice danese riesce a trasmettere con assoluta chiarezza al lettore, che rischia di trovarsi spaesato da tutto questo dolore che gli viene sbattuto in faccia con violenza, senza mezzi termini e senza alcun zuccherino ad addolcire l’amara pillola. Dopo Infanzia e Gioventù (entrambi editi Fazi), la terza parte della biografia dell’autrice è un romanzo per certi versi disturbante, ma che sa muovere qualcosa dentro, colmare le pagine e renderle uniche. Una storia che si sviluppa sul doppio binario dell’esperienza personale e della Seconda guerra mondiale che si muove sullo sfondo, come se non ci potesse essere, effettivamente, pace né all’interno di se stessi né al di fuori. La mancanza di un posto sicuro in cui rifugiarsi dai propri demoni e dall’incapacità di gestire la vita. La difficoltà di dare concretezza, logica e lineare, a stati d’animo volubili e contrastanti che possono però condurre, anche se a fatica, a una ben precisa presa di coscienza sulla necessità di un cambiamento e la speranza di poterlo realizzare, quel cambiamento. Eppure, sebbene lei sembri ignorarlo perché troppo presa dal suo malessere mentale, dal suo insistente bisogno di soddisfare l’estraniazione attraverso i farmaci per non soffrire più, la scrittura è il cuore pulsante della vita di Tove, è ciò che la tiene in vita, è la mano che la solleva e la fa reagire, è ciò che la salva.
Dei tre volumi, il secondo, Gioventù, è quello che mi è piaciuto di più, quello che mi ha fatto entusiasmare e apprezzare la Ditlevsen, convincendomi a completare la trilogia (il primo, Infanzia, mi aveva lasciato un po’ così) ma questo, Dipendenza, è quello che porta la scrittrice e poetessa su un piano superiore. La consiglio? Assolutamente sì.