Fiducia e delusione, cattiverie e invidia. Il buono contrapposto al marcio che c’è dentro ogni individuo. Agostino, detto Gosto, è un’anima pura e gentile, un uomo privo di malizia contraddistinto, a tratti, da un’infantile e sincera ingenuità che lo rendono un facile bersaglio per opportunisti, male lingue e maligni. Gosto è un disincantato, un uomo semplice che ha sempre vissuto della fatica delle sue mani in un piccolo borgo contadino della campagna toscana, di quelli talmente piccoli che si conoscono tutti e nessuno si fa mai gli affari propri, sul labile confine tra luce e ombra, tra cattiveria e bontà. Mai parole d’affetto per lui, lo “storto”, come lo definiva suo padre. Il campo di Gosto di Anna Luisa Pignatelli (Fazi editore, pp. 224) è una storia dolce-amara, di quelle che un po’ fanno arrabbiare e un po’ commuovere, che mostra i lati migliori e i lati peggiori dell’animo umano. A Gosto ci si affeziona, è impossibile evitarlo. Diventa, pagina dopo pagina, un amico a cui si vorrebbe dire di fare attenzione, dare una pacca sulla spalla e sorridergli, abbracciarlo e rassicurarlo, ché non è solo. E invece è stata proprio la solitudine, e la fiducia mal riposta, l’unica fedele compagna di vita di Gosto, che nemmeno in famiglia è riuscito a ottenere l’unica cosa che voleva: rispetto. Con uno stile narrativo che rispecchia fedelmente la parlata, l’atteggiamento e il modo di porsi della Toscana, l’autrice guida il lettore all’interno di un microcosmo ben allineato che non accetta mai fino in fondo, anche a distanza di anni, i forestieri, elementi di disturbo del fragile equilibrio di potere fra servi e padroni, fra chi “comanda” la comunità e chi “esegue”. Ciò che disturba del forestiero non è tanto il suo “venire da altrove”, quanto il fatto di non piegarsi all’ossequiosità nei confronti di chi si impone con l’inganno, la cattiveria e l’arroganza. È il loro rimanere uomini con la schiena dritta, il loro andare avanti fieri di ciò che sono e fanno senza dover rendere conto a nessuno. Gosto dovrebbe essere un esempio da seguire, ma purtroppo, dicendola un po’ alla Giovanni Verga, è e rimarrà sempre un vinto. Un libro-gioiellino da leggere e divorare, delicato e forte allo stesso tempo. Cinzia Ceriani