Il mio primo pensiero alla fine della lettura del prequel di Hunger Games, La ballata dell’usignolo e il serpente (Mondadori, pp. 572) è stato cercare di capire se ero stata io ad aver riposto eccessive aspettative in questo libro o se fosse stato meglio che l’autrice, Suzanne Collins, avesse lasciato che la saga continuasse ad essere una trilogia. Ci sono, infatti, dei sospesi, dei punti della trilogia non affrontati che l’autrice avrebbe potuto riprendere e spiegare per meglio far capire l’ambientazione, la storia degli Hunger Games. Elementi importanti che, a mio avviso, non ha sfruttato. Primi fra tutti i personaggi. In questo romanzo troviamo un Coriolanus Snow troppo giovane e profondamente diverso da quello che siamo abituati a conoscere, un diciottenne studente alle prese con i suoi primi Hunger Games, i decimi dalla fine della guerra, in veste di mentore del tributo femmina del Distretto 12. È un ragazzo fondamentalmente buono, ingenuo sotto alcuni aspetti, segnato nel fisco e nell’animo dalla guerra, addirittura neanche troppo convinto dell’utilità degli Hunger Games e disgustato dal disumano modo in cui Panem tratta i tributi. In lui non vi è neppure l’ombra del crudele e calcolatore futuro presidente di Panem e solo nelle ultime pagine si inizia ad intravedere il vero Snow. Un cambiamento, il suo, talmente lento e privo di motivazioni oggettive che quasi perde d’importanza, pare che non vi sia evoluzione. Sembrano due persone, messi a confronto i due Snow, quello del prequel e quello della trilogia, assolutamente agli antipodi. A creare ancora più contrasto sono gli altri personaggi. Chi ha sicuramente più spessore è il coprotagonista, Seianus, che ho preferito mille volte di più. Dimostra carattere e idee chiare. Gli altri sono tutti di contorno. Non sono approfonditi. Per intenderci, non vi è alcun personaggio, anche se a mio parere c’erano le potenzialità per crearli, pari ad un Gale, un Cinna, un Haymitch o una Effie, persino il precursore di Caeser Flickerman, il commentatore degli Hunger Games, e che nel prequel prende il nome di Lucky Flickerman, risulta scialbo e senza sostanza. Lucy Gray, il tributo femmina del 12 di cui Coriolanus si innamora e che avrebbe dovuto essere l’altra coprotagonista, in realtà non ha la carica e le caratteristiche di nessuno dei personaggi che hanno reso speciale questa saga, anzi, in lei ho addirittura faticato a trovare un senso. L’ambientazione. Come scrivevo prima, siamo ai decimi Hunger Games, la guerra è finita da pochi anni ma ancora pesanti sono le conseguenze, peccato che non ve ne sia traccia, se non in maniera molto blanda e molto sommaria, quindi, ancora, non si sa nulla della guerra che ha condotto all’istituzione della punizione-premio dei giochi della fame. La Panem della trilogia ancora non esiste, i tributi non hanno suite a disposizione e palestra per gli allenamenti, né trucco e parrucco. Sono trattati come traditori, ribelli, malmenati e affamati, disumanizzati alla stregua di terribili e pericolose bestie. Per tutto il romanzo mi sono chiesta come mai l’autrice abbia scelto di raccontare gli eventi accaduti più di sessant’anni prima, aprendo porte e tematiche che, ad eccezione del giovane Snow e delle ghiandaie imitatrici, non hanno alcun legame con la trama principale della saga. Molto più d’impatto, e sicuramente più costruttivo, utile a chiarire e completare la storia, sarebbe stato l’essersi magari concentrati sul raccontare, ad esempio, gli Hunger Games vissuti da personaggi importanti come Finnick o Johanna, oppure raccontare come Snow è arrivato al potere, con quali mezzi, oppure ancora raccontare il trascorso e l’annientamento del Distretto 13. Per come è stato concepito, questo prequel va a creare un buco temporale enorme e senza alcun fondamento tra esso e il primo volume. Io, al contrario, pensavo che lo avrebbe colmato. A salvare comunque il romanzo è lo stile scorrevole e coinvolgente dell’autrice, che non annoia mai e che riesce sempre a catturare il lettore. Diversi sono i colpi di scena, soprattutto nella seconda metà del romanzo, che animano e risollevano un andamento altrimenti piatto e a tratti noioso. Lo consiglio? Ni. Nel senso che se si è curiosi di conoscere un lato inedito ed embrionale di Panem e lo si legge considerandolo slegato dalla trilogia (e forse questo è stato il mio errore, non averlo fatto), è in ogni caso un buon libro distopico; evitate se non volete aprire interrogativi destinati a rimanere senza risposta o non volete “rovinare” l’originale.