Home » Intransigenze di Vladimir Nabokov

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Recensione

La parte più interessante di questo libro riguarda di sicuro le interviste che Nabokov ha rilasciato a diversi giornali e riviste. Meno rilevanti, a mio parere, sono gli articoli e le lettere ai direttori dei giornali in cui l’autore controbatte alle opinioni (o insinuazioni) espresse da questo o quel critico, e redarguisce e “corregge alcune cattive traduzioni dal russo all’inglese e viceversa di qualche” parole sue “sprovveduto traduttore”. Gli scritti sui lepidotteri, invece, non li ho neppure letti, sinceramente non mi interessanto. Come scrivevo poc’anzi, ho apprezzato molto le interviste, che mi hanno dato modo, seppur nello stile un po’ altisonante e ridondante di Nabokov, di conoscerlo come persona oltre che come scrittore. Era un uomo abitudinario ed estremamente colto che non temeva di sradicare dal loro piedistallo i “big” della letteratura che lo hanno preceduto o che sono stati a lui contemporanei. Un uomo che appare un po’ tronfio, a volte,  sicuramente orgoglioso e presuntuoso (e forse anche a ragione visti i suoi incredibili successi e la sua eredità letterario), ma comunque, chissà come, risulta convincente, piacevole e assolutamente illuminante.

 

 

 

Trama

Nabokov aborriva le interviste. Eppure, soprattutto quando diventò una celebrità, dovette subirne alcune. Ma il lavoro di quei malcapitati giornalisti si trasformava in puro pretesto per una strepitosa reinvenzione con cui egli si proponeva innanzitutto di cancellare «ogni traccia di spontaneità, ogni parvenza di effettiva conversazione». Il risultato fu una sorta di concrezione madreporica, dove con gli anni finirono per depositarsi, nella loro forma più scintillante e micidiale, non tanto le idee quanto le intransigenze di Nabokov, come dire le reazioni della sua fisiologia di scrittore ai grandi temi (e spesso alle grandi scemenze, come l’«impegno») che vagavano per l’aria.
Nabokov scopre le sue batterie fin dalla prima riga della Prefazione: «Penso come un genio, scrivo come un autore eminente e parlo come un bambino». Ma è solo un sommesso preannuncio rispetto alle bordate che la sua artiglieria spara in tutto il libro e in tutte le direzioni: dalla letteratura all’arte, dalla politica alla sociologia e alla psicoanalisi. È più facile contare i pochi che si salvano, perché innumerevoli sono, per questo cacciatore di farfalle e di «false fame», i bersagli da colpire senza misericordia. Si salvano, per esempio, ma non sempre restano incolumi, James Joyce e Kafka, Pushkin, Tolstoj e Balthus, o i grandi comici quali Buster Keaton, Charlie Chaplin, i fratelli Marx, Stan Laurel e Oliver Hardy; mentre sono investiti da scariche di sarcasmo Dostoevskij e Balzac, D.H. Lawrence e Sartre, il Thomas Mann di Morte a Venezia e il Pasternak del Dottor Zivago (al quale fanno compagnia altri tre dottori: Freud, Schweitzer e Fidel Castro). Visto a distanza, molto di ciò che Nabokov diceva come provocazione e insolenza (per esempio in politica) ci appare oggi chiaroveggente e preciso. Ma, anche là dove il gioco lo spinge a esasperare i termini – spesso in modo esilarante –, gli siamo grati e lo seguiamo, perché ci rivela cose che ogni visione equilibrata e contegnosa ignora. Non solo: attraverso molteplici pretesti rivela di pagina in pagina tratti e momenti di se stesso, in una sorta di capricciosa e obliqua autobiografia.

 

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