Un po’ Kafka e un po’ denuncia sociale. Il resoconto dell’esperienza carceraria vissuta in prima persona dall’autrice è un piccolo ma significativo spaccato di quanto, ad inizio ‘900, alle donne bastasse poco per finire dietro le sbarre, e spesso nemmeno per crimini diretti o effettivamente compiuti, ma solamente perché esprimevano idee diverse, erano state l’amante dell’uomo sbagliato o il capro espiatorio di qualcun altro. Del resto non è una novità, come insegna anche la storia antecedente. Prigione di Emmy Hennings (L’Orma editore, pp. 158) è alla sua prima edizione italiana ed è uno di quei libri che non si fa notare subito, che non fa chiasso, ma che una volta letto non può non lasciare un segno, un interrogativo. Per quanto ancora? Quante altre storie ci sono che non conosciamo o conosciamo poco, come quella raccontata da Hennings, ieri ma anche oggi. È l’ennesimo esempio di quanto le donne hanno sofferto, soffrono e continueranno, aimè, a soffrire nel fisico e nell’animo. Per tutto il libro l’autrice, attrice e cantante di cabaret, non espone mai apertamente il reale motivo che l’ha condotta a vivere un’esperienza simile, per scoprirlo occorre che il lettore legga le brevi note biografiche apposte sull’aletta di copertina. Siamo nella Bavaria del 1914 e la Hennings è consapevole, certo, di aver sbagliato qualcosa, di aver infranto la legge, ma allo stesso tempo è anche convinta di non meritarsi un simile trattamento, di essere rinchiusa e privata di ogni compassione umana come il peggiore dei criminali. Anzi, in carcere lei ci è finita per ingenuità, perché cosciente di dover subire un processo, ha chiesto di rinviarne la data per poter partire per un viaggio. E qui la “giustizia” ne ha approfittato: l’imputata era a rischio fuga. Lo stile utilizzato dalla Hennings per tramandare la sua voce è pregnante, diretto e avvolgente, obbliga il lettore ad immedesimarsi in lei, a guardare la realtà carceraria con i suoi occhi e a chiedersi, visti anche gli ultimi fatti di cronaca, quanto è cambiato da allora nei confronti della donna, dentro e fuori le strutture di coercizione. È uno scritto, una testimonianza poco conosciuta, di cui nessuno parla mai, e che fa riflettere. Posso solo ringraziare Emmy Hennings per aver tramandato la sua storia e a L’Orma editore per averla pubblicata.