Ancora fortemente dominata dalle emozioni e dai positivi giudizi che aveva suscitato in me, quasi un anno fa, Il giardino delle farfalle (Newton Compton, p. 336), il primo lavoro di Dot Hutchison, sono partita a leggere questo suo secondo thriller, Il giardino delle rose (Newton Compton, p. 336) con trepidazione, entusiasmo e alte aspettative che, contrariamente a quanto accade di solito con le storie di questo tipo, non sono state affatto deluse, anzi. Di certo, e qui posso affermarlo, il romanzo non ha, almeno per me, eguagliato neppure un po’ il suo predecessore, ma mi ha comunque coinvolto e appassionato. Benché sotto alcuni aspetti questo secondo libro sia legato al primo con chiari riferimenti alle tematiche affrontate, alle similitudini sulla vittimologia e sul killer, nonché sui personaggi, si presenta in maniera del tutto differente. È più lento, c’è meno suspense e meno adrenalina. È come se fosse più controllato, più metodico, meno incline a concedere spazio alla follia del killer in favore dell’aspetto psicologico delle sue vittime indirette, quelle che hanno subito la perdita di una persona cara per mano sua e che ora attendono la resa dei conti; è meno delirante, è meno particolare. Lo stile della Hutchison è indiscutibile; la trama è perfettamente architettata e costruita, l’impianto emotivo-psicologico dei personaggi (se mi consentite questa espressione) è ben solido e calibrato. I personaggi sono realistici e il loro modo di reagire e pensare risponde alle aspettative del lettore, che li vuole tormentati, “irrisolti”, in cerca di una giustizia che non potrà mai soddisfarli completamente, tanto da spingere la protagonista, Prya, a premeditare una risoluzione al limite. Una scelta che può essere condivisibile o meno, ma che rispecchia la realtà, i sentimenti delle vittime, senza censura, senza smussamenti di sorta. Agghiacciante al punto giusto.
Cinzia Ceriani