Pur non fornendo esattamente tutte le risposte su ciò che da sette anni a questa parte sta succedendo nel vicino Medio Oriente, in particolare in Siria, Il pianista di Yarmouk, di Aeham Ahmad (pp.348, La Nave di Teseo), attraverso le parole e la storia del protagonista, in questo caso lo stesso autore, aiuta a comprendere cosa è successo e sta tutt’ora accadendo in uno dei quartieri più colpiti dai missili, dalle bombe, dagli spari, dalla fame e dalla miseria, quest’ultime dirette conseguenze dei primi tre. È un minuscolo spaccato, certo, di un insieme molto più grande e complesso che unisce in sé motivi economici, sociali e governativi, ma almeno espone liberamente cosa significa vivere in quartieri come quello di Yarmouk, dove risiedevano, già con difficoltà anche prima della guerra, rifugiati palestinesi cacciati dagli israeliani. E tutto dalla voce viva, brillante, malinconica ma mai abbattuta, anzi forse più forte e tenace che mai, (probabilmente perché a differenza di altri suoi connazionali ce l’ha fatta) di Aeham Ahmad, che ha vissuto l’orrore sulla sua pelle. Tutti noi, o quasi, conosciamo la storia del pianista che suonava tra le macerie, abbiamo visto le immagini sui tg, abbiamo cercato e visualizzato i video su Youtube e Facebook, condiviso post e cliccato “mi piace”, ma scoprire passo passo, capitolo dopo capitolo com’è nata la foto del ragazzo con la maglietta verde seduto ad un pianoforte in mezzo a case rase al suolo, le sue motivazioni e per chi lo faceva è senza dubbio la sensazione più potente e coinvolgente che questa autobiografia trasmette. Un messaggio importante che ricorda un po’ la resistenza passiva della nonviolenza di Ghandi, e che si può riassumere con questa breve frase che racchiude l’intera essenza sia del romanzo che dell’idea stessa: «Io sono un pianista. Non ho mai sventolato bandiere. La mia rivoluzione è la musica. Quel giorno capii che doveva essere questa la lingua della mia protesta». È inquietante constatare come, per l’ennesima volta, i media oscurino o passino in secondo piano certi orrori. Il parto cesareo senza anestesia di Tahani, moglie di Aeham, così come il suo desiderio di mettere al mondo un secondo figlio in mezzo a tanta disperazione mi ha sorpreso e angosciata; la morte di Zeinab, dodici anni appena, e senza un motivo valido, mi ha scioccata. La prigionia di Aeham e la sua famiglia, seppur breve, mi ha fatto venire la pelle d’oca. Sono racconti che impressionano, annichiliscono e ci fanno chiedere che senso ha tutto questo. In nome di cosa? Di nuovo. I due grandi conflitti che hanno dilaniato l’Europa nel Novecento non sono stati sufficienti? L’uomo non imparerà mai la lezione? Per me, lo ammetto, è stata la mia prima lettura in assoluto incentrata sul mondo arabo e le sue problematiche e leggere mi scuote più che vedere in televisione. Io, da amante della letteratura anglosassone e americana quale sono, ho sempre fatto fatica ad approcciarmi a letture di nazionalità così differenti (araba, giapponese, cinese, ecc) e ora mi devo un po’ ricredere. Il romanzo di Ahmead si legge con il fiato sospeso, si spera e si soffre con lui, impazienti di girare la pagina successiva.
Cinzia Ceriani