Fabrizio era un bambino gentile, vivace e molto felice. Era circondato d’affetto e d’amore: sua madre era molto premurosa ma mai apprensiva; i nonni erano affettuosi con lui e non lo sgridavano mai e il papà lo faceva sempre giocare. Ogni tanto i genitori lo rimproveravano perché faceva il birichino ma queste piccole tensioni si risolvevano con le scuse di Fabrizio e un forte abbraccio della mamma.
Viveva in una casa circondata da un grande giardino delimitato da un ruscello oltre il quale si allungava la strada che portava alla città.
A Fabrizio piaceva passeggiare fino al ruscello e quasi ogni pomeriggio d’estate ci andava insieme a Mario e Nicola, i suoi due amici, con i quali si divertiva moltissimo. I tre amici giocavano nell’acqua, vi gettavano i sassi e spesso con la vecchia vespa del fratello di Nicola costeggiavano il ruscello seduti tutti tre insieme sul sedile della moto.
Fabrizio passeggiava anche da solo lungo il ruscello e un giorno, mentre stava calciando i sassolini che incontrava lungo il cammino, si chiese cosa ci fosse al di là del fiume. Non riusciva a darsi una risposta ma nutriva un forte desiderio di conoscere cosa si estendesse al di là del ruscello. Tornato a casa chiese alla madre:
«Cosa c’è di bello in città? Perché tutti vogliono andarci? »
Gloria rispose: «Le persone non vogliono andarci, ma vi sono obbligate perché là ci sono gli uffici e le fabbriche per lavorare, i tribunali e gli ospedali dove ci sono gli ammalati. Bambino mio questo posto è il paradiso.» Poi aggiunse:
«Ti ricorderai in futuro delle mie parole e non vorrai fare niente altro che scappare quassù, nel luogo della gioia eterna.»
Il bambino, dopo avere ascoltato le parole della mamma, provò a convincersi che era vero quello che gli aveva detto, ma dentro di sé non riusciva a far tacere la curiosità. Un pomeriggio di primavera si recò al ruscello da solo. Quel giorno il sole tiepido illuminava il viso di Fabrizio e questa sensazione gli riempiva il cuore di allegria. Sedutosi lungo la riva del ruscello, sentì accendere la curiosità dentro sé e decise che avrebbe attraversato quel rivolo d’acqua per esplorare la città. Non gli bastava più essere accompagnato in macchina a scuola o al catechismo, lui voleva vedere e conoscere cosa fosse la città realmente. Attraversato il torrentello in un punto basso, Fabrizio si trovò davanti agli occhi una grande strada d’asfalto dove le macchine correvano molto velocemente mentre lui, impaurito, scendeva lungo il ciglio.
Approdò infine ad una piazza che era stracolma di gente che andava e veniva. Fabrizio rimase attonito da quanto straordinaria, insolita e gigante gli sembrava quella visione. Al centro della piazza c’era una grande rotatoria ricoperta da un manto di erba verde e dietro ad essa si innalzava un imponente edificio. Al centro di questo edificio di colore rosso, un po’ sbiadito dagli anni, si ergeva la scritta Albergo Grandi. Si trattava di un hotel a cinque stelle dal quale uscivano signori distinti e signore imbellettate. A fianco di questo albergo c’era una fila di negozi di vestiti interrotta al centro da un piccolo ferramenta. Sul lato opposto si potevano vedere due gioiellerie, una toelettatura per cani e una banca. Ma quello che stupiva di più Fabrizio era il numero enorme di persone in quella piazza. Si diresse verso l’hotel e si sedette su una panchina che si trovava proprio davanti all’albergo, pensando così di poter parlare con qualcuno. Rimase ad aspettare per molto tempo ma non si sedette nessuno perché tutti andavano di fretta; sembrava che solo i cani avessero voglia di guardarsi attorno. Finalmente vide qualcuno avvicinarsi: era un vecchio che indossava un vestito elegante, era calvo e sulla sommità del capo si vedeva una grossa crosta di sangue. Però a Fabrizio il sorriso di quel signore sembrava dolce e sincero. Una volta sistematosi gli chiese:
«Come ti chiami bel bambino?»
«Fabrizio» gli rispose.
«Come mai sei in giro tutto solo?»
«Volevo fare un giretto» disse il bambino. Il vecchio allora gli disse:
«Chissà come starà male la tua mamma! Non hai pensato che ora lei sarà preoccupatissima di non sapere dove sei?» Fabrizio, mentre ascoltava queste parole, si mise a piangere perché immaginò quanto fosse in pensiero la sua mamma. Il vecchio gli porse un fazzoletto per asciugar le lacrime e gli fece una proposta:
«Io la conosco la tua mamma, perciò se vuoi ti posso accompagnare a casa.» Effettivamente il bambino non si sentiva più in grado di tornare a casa da solo, perciò accettò di buon grado l’offerta del signore. Il vecchio prese per mano il bambino ed iniziò a camminare; dopo aver camminato a lungo, Fabrizio iniziò ad insospettirsi perché non aveva impiegato così tanto tempo all’andata. Passato ancora un po’ di tempo, e visto che ancora non riusciva a riconoscere né la sua via né la sua casa, si spaventò tantissimo; era sul punto di scoppiare a piangere quando un agente della polizia municipale si appostò davanti a loro e intimò al vecchio di fermarsi. L’agente allora esclamò:
«Mi segua in caserma e lasci il bambino.» Quando arrivarono in caserma Fabrizio venne preso in
braccio da una poliziotta ed il vecchio finì dietro le sbarre.
«Chi è quel signore?» Chiese alla poliziotta.
«Si tratta del barbone del paese, più di una volta ha tentato di rapire i bambini e questa volta siamo riusciti a beccarlo in flagrante» poi aggiunse: «Ti sei spaventato piccolino?»
Fabrizio, nonostante fosse tremante di paura, disse di no.
Si sedette su una sedia che si trovava lungo un corridoio e rimase lì per un bel po’, finché non si aprì la porta all’estremità del corridoio e vide la mamma entrare. Gloria gli corse incontro, lo abbracciò con ardore e lo riempì di baci. Poi nell’orecchio gli sussurrò:
«Hai visto che il paradiso non è qui?»
Lui rispose:«Avevi ragione mamma, non scapperò mai più!»
Dopo questa disavventura Fabrizio non andò più al ruscello.
Il tempo passò e quando divenne un giovane uomo lasciò la casa per andare all’università. Faceva il possibile per tornare durante i weekend e nelle vacanze estive, perché la nostalgia era molto forte.
Non amava uscire nella grande città piena di gente sconosciuta, ma preferiva frequentare gli amici con cui era cresciuto. Una sera si trovava nel bar del paese assieme a Mario e Nicola, e fu lì che vide Samanta. Indossava un dolcevita di lana rosa intenso su cui poggiavano i lunghi capelli biondi. Si conoscevano già sommariamente, come si conoscono i ragazzi della stessa cittadina, ma proprio in quell’attimo lui rimase incantato dalla sua bellezza semplice. Si frequentarono poi come amici per molto tempo; Fabrizio cercava in tutti i modi di avvicinarla a sé ma lei era sempre sfuggente perché rinchiusa nelle sue preoccupazioni.
Un bel giorno riuscì a trovare il coraggio di chiederle di uscire, si trovarono a fare quattro passi, ma la timidezza, e soprattutto la paura di aprire il cuore l’uno verso l’altro, impedì loro di chiacchierare in modo disteso. Nonostante ciò, Fabrizio decise che l’avrebbe conquistata a tutti i costi e durante un gelido pomeriggio di dicembre la invitò a prendere un caffè. Samanta accettò senza ripensamenti e quel giorno, tra una parola e l’altra, due vite si legarono intensamente per sempre. Dopo altri due mesi di frequentazioni lei si convinse ad aprire il suo cuore. Finalmente Fabrizio poté tirare un sospiro di sollievo: ora Samanta era sua e non l’avrebbe più lasciata sfuggire via.
Appena terminati gli studi, i due giovani si sposarono e dopo alcuni anni trascorsi viaggiando da una parte all’altra del mondo arrivò una splendida bambina a suggellare il loro sogno d’amore; la chiamarono Giuditta come piaceva a Samanta.
Il giorno in cui Giuditta iniziò a fare i primi passi Samanta si sentì male e svenne esanime a terra. I suoi malori non cessarono e Fabrizio, che era medico, sospettava qualcosa di grave. Gli esiti delle analisi non tardarono a confermare i sospetti: aveva un cancro alle ovaie e non sarebbe vissuta a lungo. Così Fabrizio si trovò disperato e sopraffatto dal dolore, a dover affrontare una situazione terribile completamente da solo. Faceva il possibile per riempire di cure la moglie e badare a Giuditta ma a fine giornata si sentiva stremato e privo di energie. Oltre alla preoccupazione per la malattia della moglie, nella sua mente frullavano di continuo alcune domande sul perché fosse successo a loro e quale potesse mai essere il futuro di una bambina senza madre. Non arrivava mai a capo di questi ragionamenti anzi, a momenti, gli sembrava che la testa gli stesse quasi per scoppiare.
Un giorno, oppresso dalla stanchezza e dal dolore, gli tornarono alla mente i felici giorni della sua infanzia passati lungo il ruscello e decise di recarsi lassù a riflettere. Con l’occasione si recò anche a salutare la madre.
Quando entrò in casa lei sorrise e, fingendo di nascondere un volto rassegnato, gli chiese:
«Come vanno le cose?» Fabrizio era stanco di sentirsi ripetere le solite domande, ma questa volta, vedendo la dolcezza del volto di sua madre, le concesse una risposta sincera:
«Non c’è più nulla da fare, ormai l’unica cosa possibile è fare in modo che non senta il dolore.» «Mi spiace tesoro mio» disse lei attonita, mentre lui con un filo di voce rispose:
«È la vita.» Poi aggiunse: «Mamma, vado al ruscello.»
«Vai e rilassati se puoi» disse Gloria mentre si sedeva nella sedia a dondolo in giardino per osservare il figlio che si allontanava.
Una volta arrivato si distese sul prato lungo la riva e senza accorgersene si addormentò. Dopo un po’ di tempo, sentendo il ronzio di un’ape, si svegliò. Rimanendo disteso, si rese conto che la tranquillità che stava assaporando mancava da tempo nella sua vita. L’odio, che a momenti sentiva verso Samanta perché non era più la splendida ragazza di prima, era svanito insieme al senso di colpa che l’opprimeva per il fatto che Giuditta sarebbe cresciuta senza una madre..
Fabrizio capì che quel luogo era davvero magico perché proprio tra quel rivolo d’acqua e tra quei sassolini levigati dormiva intatta la sua infanzia. Tra le foglie degli alberi che circoscrivevano il ruscello si potevano ancora udire le sue risate e gli schiamazzi dei suoi amichetti. Tutto sapeva di gioia e felicità e gli avvolgeva il cuore mettendo a tacere il dolore e i patimenti. Ecco cosa intendeva sua madre per il paradiso, sono tutte le emozioni che si attaccano indelebilmente in ogni angolo di un luogo dove hai vissuto e che riaffiorano in te ogni volta che vi fai ritorno. Questa magia regala di nuovo quel senso di calma e pace che ti ricaricano per affrontare la vita reale, e tutto ciò era di vitale importanza per lui, soprattutto in quel periodo.
Tornato a casa si recò subito in camera da letto dove c’era Samanta, le baciò la fronte, le sfiorò dolcemente il viso e lei si svegliò. Allora le disse:
«Sai, ti devo raccontare un sacco di cose, oggi pomeriggio sono tornato al ruscello di casa mia…» lei lo interruppe e con voce fievole pronunciò:
«Raccontami tutto quello che hai visto, sono contenta di vedere il tuo viso felice.»
Dopo pochi mesi Samanta se ne andò circondata dall’amore dei suoi cari e del suo amato marito.
Nonostante lo scorrere del tempo Fabrizio non si abituava ancora all’idea che Samanta non ci fosse più, ma cercava in tutti i modi di essere un papà esemplare; intanto Giuditta cresceva forte e sana ed aveva negli occhi la stessa luce vitale della madre.
Un pomeriggio di primavera, quando la bambina aveva compiuto cinque anni, Fabrizio le infilò il cappottino e le disse:
«Ora andiamo in un posto magico.» Lei, incuriosita, gli chiese subito
«Come si chiama?»
«Si chiama paradiso, bambina mia.» Giuditta era troppo piccolina per capire il significato di quel nome ma non se ne curò più di tanto; prese il papà per mano e iniziò a camminare di fianco a lui. Più tardi, padre e figlia arrivarono al ruscello.
Così anche a Giuditta, che era ancora inconsapevole di tutto ed aveva solo il desiderio di giocare, venne regalato il paradiso. Quando si furono seduti di fronte alla riva, la bambina chiese:
«Perché siamo qui?» E lui dolcemente le rispose:
«Bambina mia, non fare troppe domande, un giorno capirai. Vivi, ora è il tuo momento.»