Invecchiare, mutare, morire. A qualsiasi età e in modi diversi. È un processo lento e inesorabile, impossibile da placare o rallentare, l’unica possibilità concessa è quella di cercare di virare la direzione presa e, in qualche modo, di dare un senso allo scorrere del tempo. Morire giovani, magari per mano altrui, in modo improvviso, sia che avvenga in silenzio, quasi senza accorgersene, o in maniera violenta e rumorosa, non è peggio che lasciare questo mondo in tarda età con la sola compagnia dei pochi, fidati compagni di un tempo e aspettare, inerte, che il boia, la malattia, lasci cadere l’ascia sospesa sopra la testa. Ripensare agli anni della gioventù, alle imprese compiute, soprattutto per chi è vissuto negli anni della Guerra, contribuendo al benessere in cui l’Italia, da allora, è stata catapultata e accorgersi che tutti i sacrifici fatti sono stati resi vani da una classe politica arrogante, incapace, arrivista e avida, non è facile. Non è facile nemmeno rendersi conto che l’orologio sta rintoccando gli ultimi anni, gli ultimi mesi, destinati a scorrere nell’impotenza, nella pigrizia e nell’attesa. Senza più aspettative né occasioni di vita. Dimenticati da quello stesso mondo che invece dovrebbe essere debitore di queste persone perché è grazie a loro che esiste. È
questa sensazione di profonda frustrazione che permea le giornate degli anziani ospiti della Casa di riposo Michail Bakunin (Giulio Perrone Editore, pp. 192, € 15), ultimo originale romanzo di Daniele Borghi. Almeno fino all’arrivo del giovane Danilo, sregolato quanto sensibile ragazzo romano che si è ritrovato, ad un tratto, dal condurre una vita agevole nella Roma bene, a dover elemosinare anche un biglietto del treno, che ottiene un lavoro come inserviente tuttofare nella casa di riposo mantovana intitolata al filosofo e rivoluzionario russo del 1800 considerato uno dei fondatori dell’anarchismo moderno. Grazie al ragazzo, la cui vita è segnata dalla morte fisica e interiore delle persone a lui vicine, i “vecchi”, come vogliono essere chiamati, ritrovano la voglia di dare un nuovo e ultimo significato al tempo che rimane loro da vivere, progettando qualcosa che, sperano, possa rendere migliore loro stessi e il paese in cui sono diventati uomini. Generazioni a confronto che si sostengono e, almeno per una vota, non sono in conflitto ma uniti in un reciproco dare e avere come unica ancora di salvezza. Scritto con uno stile semplice e scorrevole, ma dal gergo talvolta ricercato e impreziosito da espressioni in dialetto mantovano e romano, lineare e ben costruito, il quarto romanzo di Borghi è un susseguirsi di continui riferimenti alla politica passata e presente, che ben interpreta lo stato d’animo e la delusione di coloro che hanno combattuto per un paese che si avvicina sempre di più al baratro economico, sociale e politico e di chi non vede futuro davanti a sé. Un paese in cui l’assurdo e il paradosso sono i genitori del razzismo gratuito e del pregiudizio. Ed è quindi inforcando, anche solo metaforicamente, le armi per ripristinare la dignità del vivere civile, restituire la speranza nell’avvenire e decidere come morire, probabilmente, l’unico privilegio rimasto alle menti ancora in grado di distinguere il vivere dal sopravvivere. Cinzia Ceriani